Tamit
1964

Arco di accesso meridionale alla chiesa di San Raffaele

Arco di accesso meridionale alla chiesa di San Raffaele

Lo scavo di Tamit: una lotta contro il tempo

Nel 1964 la Missione della Sapienza Università di Roma iniziò i suoi lavori di scavo a Tamit, un importante insediamento urbano della Bassa Nubia, situato circa 9 km a sud di Abu Simbel, già stato visitato e parzialmente descritto, negli anni Trenta del Novecento, dal celebre ingegnere e archeologo Ugo Monneret de Villard (Milano, 16 gennaio 1881 – Roma, 4 novembre 1954), che fu molto attivo nella Nubia egiziana e sudanese.

La Missione, diretta da Sergio Donadoni, titolare della cattedra di Egittologia alla Sapienza, era inoltre composta da Edda Bresciani e Sergio Bosticco, in qualità di egittologi, da Anna Maria Roveri e Ida Baldassarre, in qualità di archeologhe, e da Giuseppe Fanfoni in veste topografo e disegnatore.

Lo scavo di Tamit fu, più di ogni altro, fortemente condizionato dalla costruzione della grande diga di Assuan. Sergio Donadoni, del resto, aveva ottenuto la concessione proprio nell’ambito delle attività di documentazione dei siti nubiani inesorabilmente destinati a scomparire sotto il lago, attività questa che avrebbe dovuto affiancarsi al più noto e spettacolare salvataggio e spostamento dei grandi complessi templari, tra cui Abu Simbel.

Quando gli scavi iniziarono (26 agosto 1964), si credeva che il Nilo sarebbe cresciuto a un ritmo lento, cosa che avrebbe permesso di documentare con la dovuta calma le nuove scoperte. Non fu così: nel giro di pochi giorni l’acqua crebbe a dismisura, provocando il rapido crollo delle strutture in mattoni crudi e costringendo la missione a muoversi da una parte all’altra del sito per mezzo di una barca.

Alla conclusione della breve e complessa missione (16 settembre 1964) Donadoni commentò:

Quando abbiamo lasciato il campo di Tamit, la città era ridotta a un arcipelago formato dalle sue parti più alte, e i muri di mattone crudo andavano crollando, lambiti dalla corrente del fiume
(S. Donadoni, Tamit (1964), Roma 1967, p. 15)
Il Nilo prima del riempimento dell’invaso del lago Nasser

Il Nilo prima del riempimento dell’invaso del lago Nasser

Una città senza mura

Grazie alla realizzazione del rilievo topografico complessivo del sito e a una serie di saggi di scavo in alcuni punti ritenuti strategici, fu possibile stabilire che la città era priva di mura di cinta e anche di assi viari imponenti; di contro l’insediamento abitativo, nella sua fase più tarda, presentava almeno otto chiese, di cui tre extraurbane (definite “gruppo delle chiese contigue”), tre semi-periferiche (due delle quali dedicate rispettivamente a San Raffaele e agli Angeli), una situata nell’area cimiteriale, e solo una infine (San Paolo), non di grandi dimensioni, collocata al centro dell’abitato.

Fu subito chiaro che la presenza di così tante chiese costituiva un’anomalia, anche considerato il fatto che Tamit non fu mai sede episcopale. Nessuna di esse, inoltre, era riconducibile a un contesto monastico, dunque un numero così elevato di strutture ecclesiastiche poteva essere dovuto solo al fatto che Tamit costituisse un centro religioso e di pellegrinaggio piuttosto importante, anche se non fu mai possibile verificare nel dettaglio questa ipotesi.

Quanto alle case, di forma quadrangolare, erano di estensione variabile (dai 21 m2 ai 143 m2), ma tutte a due piani, collegati da una scala esterna in mattoni crudi, di cui quello superiore coperto con volta a botte.

La città era inoltre dotata di tre cimiteri, di cui il più antico situato a ridosso dell’abitato, mentre gli altri due collocati a una certa distanza dall’insediamento.

Le caratteristiche fisiche della città, e l’assenza di mura in particolare, portarono a datare la sua fondazione tra l’VIII e il IX secolo, quando le esigenze difensive che avevano caratterizzato la prima fase della cristianizzazione della Nubia, erano venute meno. La copertura a cupole, accertata per almeno tre chiese, indusse inoltre a credere che esse fossero da datare, almeno nella loro fase più tarda, all’XI secolo.

Pianta della chiesa di San Raffaele

Pianta della chiesa di San Raffaele

Le iscrizioni e le pitture

Se, escludendo la ceramica, Tamit non ha restituito molti reperti utili alla ricostruzione della vita quotidiana nell’insediamento, di contro numerose sono le iscrizioni e i resti pittorici che fu possibile recuperare.

Quanto al materiale epigrafico, esso presentava caratteristiche funzionali e linguistiche variegate, che ben esprimono la complessità della cultura della Nubia medievale.

Il greco, il copto e il nubiano antico si affiancavano infatti l’uno all’altro, tanto nelle iscrizioni funerarie quanto nelle didascalie dei cicli pittorici quanto ancora nei testi devozionali. Molte di queste iscrizioni vennero recuperate, altre solo documentate a causa della penuria di tempo e delle già descritte difficoltà logistiche e ambientali.

Ma sono soprattutto i cicli pittorici, eseguiti a tempera, ad aver destato il maggior interesse. Alcuni di essi, documentati da Monneret de Villard, ma da questi lasciati in situ, risultarono ormai perduti al tempo della missione del 1964.

L’équipe diretta da Sergio Donadoni, tuttavia, ebbe modo di staccare, prima che le acque salissero ulteriormente, numerosi pannelli dalle sole quattro chiese che sembra fossero decorate. In tale impresa si rivelò provvidenziale la presenza ad Abu Simbel – quartier generale della missione della Sapienza – del restauratore del Service des Antiquités de l’Égypte Ibrahim Abdelqader, il quale seguì il lavoro dello stacco e del primo consolidamento delle pitture. Esse sono oggi conservate presso il Museo Copto del Cairo. Si tratta di una produzione artistica databile tra il IX/X secolo e il XIV secolo, su base comparativa con altri siti e monumenti, tra cui la celebre cattedrale di Faras, che venne indagata dalla missione polacca, diretta da Kazimierz Michałowski, proprio negli anni dello scavo di Tamit, e i cui splendidi dipinti sono oggi divisi tra il Museo Nazionale del Sudan di Khartoum e il Museo Nazionale di Varsavia.

Un vescovo nubiano affiancato da un vescovo-santo e un arcangelo (Raffaele?) nel passaggio tra gli ambienti M e H della chiesa di San Raffaele

Un vescovo nubiano affiancato da un vescovo-santo e un arcangelo (Raffaele?) nel passaggio tra gli ambienti M e H della chiesa di San Raffaele

Le pitture della chiesa di San Raffaele

Non vi è dubbio che la più ricca tra le chiese di Tamit, sia dal punto di vista architettonico che da quello pittorico, fosse quella dedicata a San Raffaele. I suoi dipinti sono certamente da riferire a più fasi e la realizzazione di alcuni di essi comportò la tamponatura di porte e di finestre a feritoia, segno che la chiesa stessa venne restaurata a più riprese. Le figure erano sempre circoscritte di rosso o di nero e campite di colori vivaci e privi di sfumature.

Una delle immagini più interessanti – tra le molte che si potrebbero citare, spesso dedicate a santi cavalieri – è quella che rappresenta il santo a cui la chiesa era dedicata. La figura di Raffaele è stante, appoggiata a una lunga asta e rivestita di un abito riccamente decorato. I piedi dell’arcangelo poggiano su una lunga bestia (un drago? un coccodrillo?) con la bocca spalancata, da cui fuoriesce, a braccia levate, una piccola figura barbuta. A destra del santo è il modellino della chiesa, grazie al quale si ha conferma della copertura a cupole che un tempo la coronava.

Altrettanto notevole è la rappresentazione di un vescovo dalla pelle scura, non dissimile da un’analoga raffigurazione rinvenuta nella cattedrale di Faras e da altre provenienti dalla chiesa di Abdalla Nirqi, che dimostra l’indipendenza della Nubia, rispetto all’Egitto, nella formazione della propria la gerarchia ecclesiastica.

L’arcangelo Raffaele calpesta una bestia (un drago? un coccodrillo?) con la bocca spalancata, da cui fuoriesce, a braccia levate, una piccola figura barbuta

L’arcangelo Raffaele calpesta una bestia (un drago? un coccodrillo?) con la bocca spalancata, da cui fuoriesce, a braccia levate, una piccola figura barbuta

Un reperto eccezionale

Dei tre cimiteri medievali del sito di Tamit, quello detto “occidentale”, particolarmente esteso, si sovrappose a una necropoli di epoca pre- e protodinastica. Nella cosiddetta “tomba 10” venne rinvenuto un vasetto riferibile alla cultura del “Gruppo A” (3800-3100 a.C.), vale a dire alla fase di occupazione della Nubia che vide l’adozione di motivi e manufatti propri dell’Egitto protodinastico di età tarda ( ). Il vasetto presenta una decorazione rosso-violacea che raffigura barche dotate di remi e cabine, separate da cespugli a forma di ventaglio. Su una barca si nota, a poppa, una decorazione a forma di bucranio. Si tratta di un ritrovamento eccezionale in Nubia, che dimostra come la Tamit tardoantica e medievale rappresentasse solo l’ultima fase di occupazione di un sito che era stato pienamente coinvolto dai fenomeni socio-politici e artistici degli albori della cultura egiziana.

Vasetto globulare riferibile alla cultura detta “Gruppo A” (ca. 3300 a.C.)

Vasetto globulare riferibile alla cultura detta “Gruppo A” (ca. 3300 a.C.)

Dettagli di scavo

  • Anni: (1963)-1964
  • Stato attuale: Sommerso