Sonqi Tino
1967-1970

Cristo Pantocratore parete est dell’haikal

Cristo Pantocratore, parete est dell’haikal (vano 2)

Lo scavo di Sonqi Tino e la nascita ufficiale della Missione Archeologica Italiana in Sudan

Nel 1967, nel quadro del già menzionato programma promosso dall’UNESCO per l’esplorazione e il salvataggio del patrimonio archeologico nella regione desertica del Batn el-Hajar (“il ventre di pietra”), la Sapienza Università di Roma iniziò a lavorare a un sito cristiano che era stato identificato con la denominazione 21-D-5 Sonqi West durante la ricognizione del 1963-1964 organizzata congiuntamente da UNESCO e Sudan Antiquities Service. Situato sulla sponda ovest del Nilo, ca 150 km a sud di Wadi Halfa, il sito era stato segnalato come caratterizzato da una piccola chiesa in mattoni con dipinti murali potezialmente ben conservati e parzialmente visibili sotto la sabbia che aveva invaso l’edificio.

Dopo un survey preliminare condotto da Sergio Donadoni e Sergio Bosticco nel 1966, nel marzo 1967, Sapienza ottenne dal Sudanese Antiquities Service, diretto allora da Sayed Thabit Hassan, la concessione per lo scavo e la documentazione del sito.

Si inaugurava così la prima Missione Archeologica Italiana in Sudan e la nuova iniziativa poté beneficiare anche dell’importante supporto del Consiglio Nazionale delle Ricerche (C.N.R.) e del Vaticano. La missione, diretta da Sergio Donadoni, era composta da una squadra scientifica di alto profilo: Sergio Bosticco, Ida Baldassarre e Giovanni Uggeri (archaeologi); Giuseppe Fanfoni e Italo Montalto (architetti); Leonetto Tintori and Silvestro Castellani (restauratori). All’équipe si aggiunse lo specialista di studi nubiani P. Giovanni Vantini in rappresentanza della Santa Sede. Da ultimo, un elemento interessante riguarda l’impiego sul campo di un gruppo di Qufti (come sono noti i discendenti degli scavatori egiziani originari di Quft addestrati da Flinders Petrie), la cui esperienza fu esplicitamente richiesta.

Come primo atto, fu deciso di modificare il nome del sito nella sua forma nubiana – Sonqi Tino – per distinguerlo da altri contesti della regione, secondo una denominazione poi entrata in letteratura. Contrariamente alle aspettative iniziali espresse nello stesso rapporto UNESCO, secondo cui l’esplorazione di Sonqi Tino avrebbe richiesto pochi giorni o, al massimo, settimane per lo scavo della chiesa e la rimozione delle pitture, l’attività archeologica della Sapienza si protrasse per quattro campagne consecutive (1967-1970). Sebbene di breve durata, queste campagne furono molto impegnative, non soltanto a causa del meticoloso lavoro sul campo e delle delicate operazioni per il distacco e la conservazione delle pitture murali, ma anche in ragione delle condizioni impervie e del difficile accesso al sito.

La prima stagione di scavo ebbe luogo dal 14 al 31 marzo 1967 e si concentrò sulla messa in luce della chiesa e sulla preparazione degli interventi di restauro dei dipinti. Si procedette contestualmente all’esplorazione della regione circostante e anche l’area del cosiddetto Diff (“castello”), situata a breve distanza, fu indagata e mappata. La tutela e il salvataggio delle pitture fu l’obiettivo primario anche della seconda campagna (21 febbraio – 21 marzo 1968), insieme con l’analisi architettonica della chiesa. Le due stagioni successive (15 marzo – 3 aprile 1969; 3-20 marzo 1970), infine, furono dedicate al completamento dello scavo e dello studio storico-architettonico, insieme all’indagine delle strutture circostanti e in particolare del cimitero.

Al momento della chiusura dei lavori nel 1970, Donadoni così riepilogava le aspettative e i risultati della missione della Sapienza:

What we considered our main task has seemingly been fulfilled: our Mission detected and secured the paintings in the first two seasons; it discovered and studied the architecture in the two following ones. We believe we are now ready to publish our study on this important monument
(Report 1970).
La concessione di scavo del sito di Sonqi

La concessione di scavo del sito di Sonqi Tino firmata da Thabit Hassan Thabit (Sudanese Antiquities Service) e Sergio Donadoni (Sapienza Università di Roma), marzo 1967

Non solo la chiesa: l’area di Sonqi Tino

Al momento della scoperta, la chiesa, posta su un plateau sabbioso ben al di sopra del Nilo, risultava interamente riempita di sabbia. Subito identificato come il monumento più importante dell’area, l’edificio divenne il fulcro delle successive attività di scavo, rilievo e documentazione della Sapienza.

La chiesa consisteva in una struttura quadrangolare successivamente ampliata con l’aggiunta di ulteriori ambienti. La pianta si componeva di nove vani disposti secondo un ben noto schema cruciforme che aveva il suo fulcro in una stanza centrale (5), aperta sui quattro lati e coperta da una cupola, mentre i restanti ambienti presentavano una copertura a botte. Il significato simbolico e liturgico della pianta era altresì enfatizzato dalla pavimentazione in pietra delle sole camere (2, 4, 5, 6, 8) che disegnavano i due bracci della croce. Di questi, il vano (2) all’estremità orientale ospitava l’haikal con l’altare in mattoni rinvenuto ancora in posto con, deposti al suo interno, un incensiere e due pietre di fondazione; inciso sull’intonaco che lo rivestiva, il nome ΜΙΧΑΗΛ (Michele) indicava probabilmente il titolare della chiesa. A questo nucleo centrale venne aggiunta in un secondo momento una serie di strutture allungate (A-D) connesse principalmente con l’alloggiamento dei visitatori, dato che evidentemente allude al ruolo dell’intero complesso ecclesiastico come meta di pellegrinaggio.

L’avanzamento e l’ampliamento delle indagini portò inoltre all’individuazione di numerose tracce di restauri e riparazioni compiute in antico e principalmente dovute all’instabilità dell’edificio, che si rivelarono di grande importanza per la comprensione dello sviluppo architettonico della chiesa – una storia che, come scriveva lo stesso Donadoni nel 1968 “is far from being homogeneous”. A questo proposito, l’analisi delle strutture, già accennata nel report finale e poi perfezionata dallo studio di Giuseppe Fanfoni (Sonqi Tino I) permise di identificare più fasi costruttive, inclusa una più antica caratterizzata da una pianta di tipo basilicale, e diversi rifacimenti più tardi. Agganciare questa storia a delle date è un’operazione delicata ma la il materiale archeologico raccolto e, soprattutto, le testimonianze pittoriche ed epigrafiche suggeriscono una datazione della fase principale dell’edificio al decimo secolo.

La chiesa di Sonqi Tino, tuttavia, non costituiva un complesso isolato ma si inseriva in un più ampio contesto. Nei quattro anni di lavoro, dunque, l’indagine archeologica fu indirizzata a mettere in luce e interpretare una serie di strutture, elementi e spazi prossimi alla chiesa. Tra questi si segnalano un insieme di edifici scoperti poco più a nord e identificati come unità abitative, e un gruppo di tombe poste a est/sud-est che evidentemente appartenevano al cimitero locale associato, probabilmente, a una fase tarda di vita della chiesa. A completamento del progetto, due piccoli insediamenti e il più articolato complesso fortificato del Diff, più a sud rispetto alla chiesa, vennero visitati e documentati.

Il vano 2 invaso dalla sabbia al momento dello scavo

Il vano 2 invaso dalla sabbia al momento dello scavo, con la decorazione ancora in posto sulla parete est che mostra l’immagine dell’Arcangelo Michele

Pianta generale della chiesa

Pianta generale della chiesa (G. Fanfoni, Sonqi Tino I, Roma 1979, Tav. 2)

La decorazione della chiesa: pitture e iscrizioni

L’impegno maggiore, e il risultato più significativo, del lavoro della Sapienza a Sonqi consistette nella riscoperta e nel restauro delle pitture murali che decoravano l’interno della chiesa. Indubbiamente, come Donadoni commentava nel resoconto alla campagna del 1968,

what gave this little church a peculiar character was its lavish pictorial decoration.

La distribuzione delle pitture sembra aver interessato principalmente gli ambienti (2, 4, 5, 6, 8) che andavano a comporre lo schema cruciforme cui si accennava e, in parte, i due vani (1, 3) che fiancheggiavano l’haikal. Il programma iconografico comprendeva rappresentazioni di personaggi divini e regali (Cristo Pantocratore nello haikal; Cristo che protegge re Giorgio nel vano 8), icone (la Trinità sul pilastro orientale tra i vani 5 e 6) ed episodi biblici (la Natività nel vano 4; i Tre Ebrei nella fornace nel vano 6). Tutti questi temi, ben attestati nel panorama artistico della Nubia cristiana, trovano corrispondenza nella decorazione pittorica da altre chiese, come Faras, Abd el-Gadir, Tamit.

La datazione di questo ciclo pittorico può essere fissata con una certa sicurezza alla seconda metà del decimo secolo sulla base dell’iscrizione che accompagna il gruppo del Cristo con sovrano nel vano 8, la quale menziona “Giorgio figlio di Zacharia”. L’identificazione del re con Giorgio II (r. prima del 969) indica che la realizzazione del programma decorativo coincise con la principale fase architettonica della chiesa.

Oltre alle preziose pitture, l’indagine del monumento mise in luce e registrò un certo numero di iscrizioni graffite o dipinte sulle pareti. Il corpus includeva testi diversi per lunghezza e contenuto (dalla semplice registrazione di nomi e titoli a più estese iscrizioni ufficiali da parte di figure di rilievo) scritti in greco e in nubiano, a testimonianza della frequentazione del sito ma anche del multilinguismo della società contemporanea.

Cristo protegge re Giorgio Figlio di Zaccaria

Cristo protegge re Giorgio “Figlio di Zaccaria” (vano 8), Sudan National Museum

Lunga iscrizione dipinta dal vano 8, Sudan National Museum

Lunga iscrizione dipinta dal vano 8, Sudan National Museum

Il restauro delle pitture: un successo italiano

Sin dalla prima campagna di scavo, fu chiaro che la conservazione delle pitture murali era minacciata dal collasso parziale delle strutture e dalla crescita della vegetazione. Il loro recupero e restauro, dunque, rappresentavano un’assoluta priorità. Le procedure per il distacco e il consolidamento delle pitture furono gestite dal famoso restauratore italiano Leonetto Tintori, con la collaborazione di Silvestro Castellani. Si trattò evidentemente di un’operazione tanto delicata quanto complessa, date le condizioni ambientali in cui il lavoro fu svolto, e altrettanti problemi si imposero per il trasporto, poiché i dipinti dovettero viaggiare lungo una pista desertica prima di raggiungere la stazione ferroviaria di Wadi Halfa ed essere da qui spediti in Italia.

Giunte infine a Firenze, le pitture furono restaurate presso i laboratori degli Uffizi dallo stesso Tintori, che le consolidò e applicò su supporti leggeri appositamente predisposti. In una lettera a P. Giovanni Vantini (20 gennaio 1968), Donadoni così descriveva il risultato finale:

As for the restoration, it seems to me that a greater care for the original conditions could not have been attained. The type of painting, its original quality, the very damages suffered ab antiquo, the graffiti, the inscriptions – everything is (to me) perfect.

Completato il lavoro, e prima della loro restituzione al Sudan, fu deciso di esporre i dipinti in una mostra ufficiale che si tenne dal 9 al 15 febbraio 1968 presso l’Aula Magna del C.N.R. a Roma. Nel riferire dell’evento in una lettera indirizzata all’allora direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura al Cairo, Carla Burri, Donadoni ne commentava con garbo il successo, tanto per il materiale esposto quanto per l’allestimento della mostra

thanks to Tintori, in the first place, but also to Fanfoni and Montalto, who did their best and succeeded in changing a Mussolinian hall with genii à foison on the walls in a room where one cannot but admire what has to be seen (February 10th 1968).

L’evento, che ebbe una certa risonanza mediatica in Italia come all’estero, fu soprattutto un’occasione unica per gli studiosi – così scriveva Donadoni –

“to have a direct glimpse of this material which, beside that from Faras (Sudan) held at Warsaw, is rarely appreciable in European Museum”.

Come riconoscimento di tale impegno, le autorità sudanesi, donarono la metà delle pitture restaurate all’Italia, più precisamente diciotto alla Sapienza, che le conserva presso il Museo del Vicino Oriente Egitto e Mediterraneo, e una ai Musei Vaticani. La restante metà, invece, entrò a far parte della nascente collezione del Sudan National Museum di Khartoum.

Articolo dello storico dell’arte Cesare Brandi sull’esposizione delle pitture

Articolo dello storico dell’arte Cesare Brandi sull’esposizione delle pitture di Sonqi Tino al C.N.R., Corriere della Sera del 15 febbraio 1968 (Archivio MVOEM)

Sonqi Tino nel Terzo Millennio: un approccio multidisciplinare

Dopo quasi cinquant’anni dalla scoperta della chiesa di Sonqi Tino e dalla prima esposizione delle sue pitture, il 21 febbraio 2012, la Sapienza e il C.N.R. organizzarono, con il coordinamento di Loredana Sist, una giornata di studio – La chiesa nubiana di Sonqi Tino: un approccio multidisciplinare – finalizzata a una rilettura dei dipinti e del loro contesto storico-artistico e archeologico alla luce di un dettagliato programma di screening e analisi cui i materiali del museo della Sapienza erano stati sottoposti. Quell’incontro fu l’occasione per presentare i risultati del delle indagini e per riprendere, aggiornandole, varie questioni legate alla cronologia, alla cultura materiale, alla geografia di Sonqi Tino. Soprattutto, l’evento dimostrò, sulla base di uno preciso caso di studio offerto dal sito nubiano, l’impatto positivo che può avere sull’indagine storica la collaborazione tra competenze diverse, combinando la prospettiva archeologica con la ricerca d’archivio e le moderne tecniche diagnostiche.

Dettagli di scavo

  • Anni: 1967-1970