Jebel Barkal
1973-2004

Veduta del versante orientale del Jebel Barkal dall’area di scavo dei templi

Veduta del versante orientale del Jebel Barkal dall’area di scavo dei templi, 1973 (Archivio MVOEM)

Dalla chiesa di Sonqi Tino alla montagna del Jebel Barkal

Nel 1973, dopo aver completato I lavori a Sonqi Tino e a seguito di una breve ricognizione condotta nel 1971, la Missione della Sapienza Università di Roma diede inizio a un nuovo progetto di scavo nell’area archeologica di Jebel Barkal, ca 400 km a nord di Khartoum, vicino alla moderna cittadina di Karima. L’importanza del sito, che prende il nome dalla montagna di arenaria (jebel, جبل) che svetta sul deserto circostante, è efficacemente riassunta in un breve promemoria preparato da Sergio Donadoni nel dicembre 1972, alla vigilia della prima stagione di lavori:

Si tratta di una zona monumentale fra le più importanti del Sudan, con una ampia serie di templi egiziani e meroitici (in molta parte già scavati e pubblicati), con necropoli regali e private (meno esplorate che non la regione dei santuari), con resti di una città (ancora archeologicamente sconosciuta): è l’antica Napata, che fu capitale del regno al tempo della dinastia ‘etiopica’ (XXV dinastia), ma che fin dall’epoca della XVIII dinastia era centro importantissimo come mostra il materiale epigrafico e scultoreo che ne proviene.

La nascita della nuova impresa archeologica era il risultato diretto del positivo coinvolgimento della missione romana nel salvataggio della chiesa di Sonqi, e fu attentamente pianificato come progetto di ricerca a lungo termine. Questa più ampia prospettiva di indagine emerge chiaramente sin dai primi scambi tra Donadoni e le autorità sudanesi. In una lettera indirizzata all’allora Commisioner for Archaeology Sayed Negmeddin Mohammed Sharif (8 aprile 1971), lo studioso italiano sottolinea esplicitamente che

A long term work in the Sudan seems to me the normal development of the good experience of the last years’ excavations.

Dei due potenziali siti identificati, Jebel Barkal e Kawa (vicino Dongola), il primo fu infine selezionato, per ragioni di ricerca oltre che logistiche. La futura missione era infatti prospettata come un vero e proprio laboratorio sul campo, dove si potesse procedere all’avanzamento di ricerche qualificate e, allo stesso tempo, alla formazione di giovani studiosi, combinando interessi e competenze di egittologi, archeologi, architetti e restauratori. Fu dunque alla luce di tali premesse e con tali obiettivi che la Missione della Sapienza ebbe inizio, insediandosi a Karima nel marzo 1973, grazie anche all’instancabile supporto di P. Giovanni Vantini, che non poté prender parte ai lavori ma il cui aiuto fu ancora una volta decisivo in fase logistica.

La successiva attività archeologica è stata portata avanti ininterrottamente per oltre trent’anni (1973-2004), sotto la direzione di Sergio Donadoni (1973-1989) e poi di Alessandro Roccati (1989-2004). Durante un così ampio arco temporale, gli scavi si sono concentrati su due settori principali – uno ai margini delle coltivazioni, l’altro più vicino alla montagna e subito a nord della grande area dei templi – ed hanno portato alla luce una serie di importanti strutture templari e palatine, che appartengono alla fase meroitica del sito.

Lettera autografa di P. Giovanni Vantini a Sergio Donadoni

Lettera autografa di P. Giovanni Vantini a Sergio Donadoni (13 febbraio 1973) in cui il missionario fornisce varie informazioni logistiche (trasferimento materiali; costo manodopera; affitto casa-missione a Karima) in vista della campagna del 1973 (Archivio MVOEM)

I templi meroitici

I primi anni di scavo (1973-1978) furono dedicati all’indagine di due edifici templari (B1300 e B1400) identificati presso i margini meridionali dell’area archeologica, vicino ai campi. La scelta fu motivata dalla minaccia rappresentata dall’espansione dell’area coltivata e, dall’altro lato, dal fatto che, a differenza dell’area sacra ai piedi del jebel, molto poco si conosceva dell’impianto urbanistico della città.

I due templi scoperti mostravano un diverso orientamento ed erano realizzati in materiali diversi: B1300, in mattoni crudi e cotti, si sviluppava lunga un asse nord-sud mentre B1400, costruito in arenaria locale, si disponeva ortogonalmente al primo, con orientamento est-ovest. Nonostante il cattivo stato di conservazione delle strutture, la pianta di entrambi gli edifici era ben leggibile sul terreno e presentava la caratteristica successione di ambienti: pilone, sala ipostila, vestibolo e santuario tripartito. In aggiunta a questo schema, l’accesso a B1300 era costituito da un portico antistante il pilone, mentre davanti all’ingresso di B1400 venne identificata una piattaforma composta di arenaria, ciottoli e frammenti di ceramica.

Non molto restava dell’originaria decorazione architettonica dei due tempi e pochi erano i materiali utili a precisarne la cronologia e identificarne i titolari. Più favorevole era la situazione in B1300, per il quale fu proposta un’attribuzione al re meroitico Natakamani (I secolo d.C.) e un legame con il culto del dio Amon, sulla base di due importanti ritrovamenti. Innanzitutto, una scena frammentaria pertinente alla decorazione del portale del pilone mostra un sovrano nell’atto di fare offerte alla dea Mut, paredra di Amon; l’iscrizione in geroglifici egiziani e meroitici che accompagnava la scena conteneva i titoli della dea insieme al prenome del re Natakamani, assicurandone così l’identificazione. In secondo luogo, nel 1976 furono rinvenute, in un angolo del sacrario, due protomi di ariete in bronzo (GB 76.1-2), interpretate come probabili terminali di scettro ed evidentemente pertinenti all’arredo cultuale.

Il valore della scoperta fu notevole, e date le delicate condizioni dei due pezzi, fu deciso di inviarli in Italia per sottoporli a un intervento di restauro presso il Centro di Restauro della Soprintendenza Archeologica della Toscana, in maniera analoga a quanto la Missione della Sapienza aveva già fatto in occasione del salvataggio dei dipinti di Sonqi. Al termine dell’intervento, nel 1977, gli oggetti restaurati furono riconsegnati a Khartoum.

Meno chiara, invece, si presentava la situazione in B1400. Qui, l’unico elemento indiziario per la datazione dell’edificio era costituito dal fatto che sorgesse a una quota più alta rispetto al presunto tempio di Natakamani – fatto che suggeriva una cronologia più tarda ma non meglio precisata.

In ultima istanza, l’ampliamento dello scavo all’esterno dei due complessi permise di individuare strutture in mattoni crudi e depositi di materiale ceramico, la cui esatta funzione e relazione con i templi appariva di non immediata comprensione ma che sembrava indicare una più ampia e articolata configurazione spaziale (forse relativa all’antico assetto urbanistico).

Pianta generale dei due templi

Pianta generale dei due templi B1300 (destra) e B1400 (sinistra), Missione Archeologica in Sudan Università di Roma “La Sapienza” 1977 (Archivio MVOEM)

Frammento di architrave iscritto con il prenome del re Natakamani

Frammento di architrave iscritto con il prenome del re Natakamani (Kheper-ka-ra) dal tempio B1300; aprile 1976 (Archivio MVOEM)

Le due teste d’ariete in bronzo

Le due teste d’ariete in bronzo (GB 76/1-2) dal tempio B1300; marzo 1976 (Archivio MVOEM)

Il palazzo di Natakamani e altri edifici cerimoniali

A partire dal 1978, arono verso la montagna, in un’area in cui la distribuzione di vari elementi architettonici sulla superficie suggeriva la presenza di un qualche edificio monumentale. La decisione si rivelò proficua e portò alla scoperta di un’imponente struttura, denominata B1500. Interpretato in un primo momento come un tempio, il complesso fu poi correttamente identificato come un palazzo reale a pianta quadrata, impostato su una piattaforma di mattoni crudi di 61 m di lato e conservata per un’altezza di quasi 2 m. L’edificio divenne il focus principale delle indagini della Sapienza per gli anni successivi, e fu posto al centro di un intenso programma di scavo e restauro finalizzati alla ricostruzione della sua storia architettonica.

Veduta aerea da nord del “Palazzo di Natakamani”

Veduta aerea da nord del “Palazzo di Natakamani” (B1500) (Archivio MVOEM)

Il palazzo, che mostrava una complessa articolazione planimetrica sviluppata attorno a una sala centrale, era accessibile attraverso quattro ingressi monumentali posti su ciascun lato della piattaforma. La decorazione architettonica doveva essere estremamente ricca, caratterizzata sia da elementi in pietra (architravi, cornici, capitelli, basi e rocchi di colonne) sia da un particolare gruppo di piastrelle smaltate, di cui numerosi esemplari furono rinvenuti nel corso dei lavori. Un particolare valore, all’interno di questo programma decorativo, dovevano avere alcune statue leonine scolpite in arenaria, che furono individuate in corrispondenza degli ingressi monumentali al palazzo, di cui originariamente dovevano essere poste a guardia. Tre di queste statue sono conservate attualmente presso il Jebel Barkal Museum, mentre una copia di una di esse venne predisposta dalla missione ed è ancora oggi in mostra presso il Museo del Vicino Oriente, Egitto e Mediterraneo della Sapienza (MVOEM).

Il continuo progresso dell’esplorazione archeologica consentì inoltre di delineare una più chiara comprensione della cronologia e del significato storico del palazzo. Se l’analisi dei materiali e dell’architettura indicava una chiara attribuzione all’età meroitica, la scoperta nel 1984 di una stele in arenaria iscritta in meroitico consentì di precisarne con puntualità la datazione. Nonostante le lacune, il testo menziona i nomi di Amanitore e Arikhankharer (regina e figlio di Natakamani), offrendo così un preciso riferimento cronologico (I secolo d.C.) e suggerendo la figura del re Natakamani come possibile costruttore del palazzo, da allora perlappunto ribattezzato “Palazzo di Natakamani”. Vista l’importanza storica del monumento, ne venne fatta realizzare una copia anch’essa entrata a far parte della collezione del MVOEM.

La stele di Natakamani

La stele di Natakamani (I sec. d.C.); 1984 (Archivio MVOEM)

Per quanto rilevante, il palazzo non costituiva un complesso isolato ma era anzi parte di un più vasto programma edilizio. Ciò è stato messo in evidenza negli ultimi anni di scavo della Sapienza (2001-2004), che hanno visto l’identificazione di varie strutture (B2400, B3200), le cui relazioni spaziali e cronologiche con il complesso palatino sollevano domande interessanti e richiedono ulteriori indagini. Probabili edifici di natura cerimoniale, il loro studio e restauro è stato portato avanti dalle missioni successive.

Jebel Barkal dopo la Sapienza

Passata all’Università di Torino nel 2005, sotto la supervisione di Alessandro Roccati, dal 2011 la missione archeologica è diretta da Emanuele Ciampini dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Questo passaggio di consegne ha coinciso con un rinnovato progetto di indagine, che si propone di (1) completare lo scavo e il restauro del palazzo B1500; (2) ampliare l’attività di scavo all’area circostante, dove vecchie e nuove strutture sono più attentamente studiate; (3) riesaminare e aggiornare la documentazione di scavo delle precedenti missioni (https://sites.google.com/view/egittologiavenezia/scavo).

Dettagli di scavo

  • Anni: 1973-2004
  • Scavi: 2005-2010 Università di Torino; 2011 - oggi: Ca'Foscari Università di Venezia Visita il sito